La sua unica conquista degli ultimi mesi era un’insonnia persistente. Il tramonto incendiava la sagoma grigia della cattedrale inquadrata dalla finestra. Il rosa, svariando, in una mezz’ora si trasformava in azzurro. Si accendevano i falò dei ristoranti notturni. Boris si vestiva, batteva le tasche per controllare di avere le chiavi, tastava che ci fosse la capsula di medicinale nel taschino dei jeans – negli ultimi tempi il cuore gli giocava brutti tiri, battendo dalla parte sbagliata – poi spegneva la luce, al che la cattedrale, già sul punto di svanire, avanzava verso la finestra, scacciando con una spallata uno sciame di stelle; infine afferrava il sacchetto della spazzatura, strangolato da una cordicella, e usciva a fare un giro prima di andare a letto.
Lasciava il sacchetto davanti al portone, in compagnia di altri strangolati in modo non meno sinistro. Un rumore di coltelli e forchette lo accompagnava tutto attorno alla buca delle Halles sconvolte dai cantieri. I tavolini dei ristoranti vivevano le loro ultime settimane all’aperto. Attraversava la noiosa, diritta rue de Rivoli e scendeva al fiume. C’era puzza di marcio e di benzina, dall’oblò di uno yacht si spandeva odore di burro fritto e sgocciolavano note di Chopin. Silenziosa passava di corsa, trotterellando, l’ombra di un cane di razza. Vicinissima, nelle onde torbide, navigava una lunga chiatta. A poppa sussurravano i fuochi di due sigarette. La notte respirava distintamente; qualcuno, invisibile, gemeva, o forse rideva, su una panchina di pietra, e una volta da sotto il ponte gli era balzato addosso un adolescente magrolino con un coltello in mano. Meravigliandosi di sé, Boris gli aveva preso svelto il coltello e l’aveva gettato in acqua; poi aveva esitato un attimo, incerto se colpire o andarsene. Ma il ragazzo si era ritirato nell’ombra del ponte, che lo aveva inghiottito senza lasciarne traccia, e Boris, col cuore impazzito, s’era arrampicato sulla scala ripida, e solo dopo avere attraversato la Senna si era reso conto che il ragazzo aveva scherzato, intimandogli «una sigaretta o la vita».
Beveva birra, nel vociare poliglotta di una rumorosa veranda. Compariva un grassone dalla voce sgradevole, si incatenava tutto, faceva schioccare lucchetti, una risata agghiacciante prorompeva dal baratro della bocca. Le catene cadevano con fragore teatrale. Un bell’uomo lezioso, con una treccina da torero nera come la pece e una cicatrice di sbieco lungo la guancia, battendo le mani si liberava della camicia bianco sporco. Dopo una tiratina all’estremità della cintura, rimaneva giudiziosamente in jeans di pelle e a lungo, inginocchiato, beveva benzina che diventava sempre più cara. Boris vedeva il su-e-giù del suo animalesco pomo d’Adamo, un’oca ubriaca ridacchiava; planava obliquo, incurante della legge di gravità, un cameriere con un vassoio rotondo sul capo; una lingua di fuoco rossastro si drizzava verso il cielo verde, illuminando i crani dei ciottoli, i cadaveri dei mozziconi di sigarette e il cappello del mangiatore di fuoco con le scaglie delle monete sulla fodera consunta.