Il monaco nero

Il professor Andrej Vasil’ič Kovrin era sovraffaticato e aveva un esaurimento nervoso. Non era in cura, ma così, di sfuggita, davanti a una bottiglia di vino, ne parlò con un medico suo conoscente, e questi gli consigliò di passare la primavera e l’estate in campagna. Proprio a proposito giunse quindi una lunga lettera di Tanja Pesockaja, che lo invitava a passare qualche tempo da loro a Borisovka. Ed egli decise che veramente aveva bisogno di cambiare aria.
Prima andò nella sua proprietà di famiglia di Kovrinka (si era in aprile) e lì trascorse tre settimane in solitudine; poi, appena le condizioni della strada lo permisero, si recò in carrozza dal suo antico tutore ed educatore Pesockij, un frutticoltore conosciuto in tutta la Russia. Da Kovrinka a Borisovka, dove vivevano i Pesockij, non c’erano più di settantacinque chilometri, e viaggiare sulla soffice strada primaverile nella comoda carrozza molleggiata fu un autentico piacere.
La casa di Pesockij era enorme, con colonne, leoni da cui si scrostava l’intonaco e un lacchè in livrea all’ingresso. Il parco antico, cupo e severo, in stile inglese, si stendeva per un chilometro buono dalla casa al fiume e lì terminava in una riva argillosa alta e scoscesa, su cui crescevano pini dalle radici nude simili a zampe pelose; sotto, l’acqua scintillava inospitale, volavano con un lamentoso pigolio i beccaccini, e c’era sempre un’atmosfera tale che veniva voglia di mettersi a scrivere ballate. In compenso vicino alla casa, in cortile e nel frutteto, che insieme ai vivai occupava circa trenta ettari, c’era allegria e gioia di vivere anche col brutto tempo. Rose, gigli, camelie così fantastiche, tulipani di tutti i colori possibili e immaginabili, a cominciare dal bianco vivo per finire col nero fuliggine, insomma una tale ricchezza di fiori come da Pesockij, a Kovrin non era mai capitato di vedere altrove. La primavera era solo agli inizi, e la parte più preziosa del giardino si celava ancora nelle serre, ma anche quello che fioriva lungo i vialetti e qua e là nelle aiuole era sufficiente perché, passeggiando in giardino, ci si sentisse nel regno dei colori teneri, soprattutto nelle prime ore del giorno, quando su ogni petalo scintillava la rugiada.
Quella che era la parte decorativa del giardino, e che lo stesso Pesockij sprezzantemente definiva “sciocchezze”, aveva prodotto un tempo su Kovrin, quand’era bambino, un’impressione di favola. Quali bizzarrie non c’erano, lì, quali mostruosità ricercate e beffe della natura! C’erano spalliere di alberi da frutto, un pero che aveva la forma di un pioppo a piramide, querce e tigli sferici, un melo a ombrello, archi, monogrammi, candelabri e perfino un 1862 di susini, numero che indicava l’anno in cui Pesockij aveva intrapreso la sua attività di frutticoltore.