Sono andato a scuola un anno prima dell’età prevista dalla legge e una ventina di giorni dopo la data prevista dal calendario scolastico. Credo che nell’una e nell’altra circostanza entrasse in gioco l’ambizione ferita della nostra famiglia, che esigeva al più presto una rivincita per tutte le sconfitte della nostra vita.
La forma più semplice in cui si manifestava la sfortuna famigliare era l’andamento scolastico di mio fratello. Questi, dotato di molte virtù più nascoste, aveva un palese difetto: andava male a scuola. Ma dire che andava male a scuola è quasi non dir nulla. Andava male in una certa maniera fantastica, favolosa. In ogni storia che accadeva a scuola e negli immediati dintorni c’era di mezzo lui.
All’insegnante di tedesco, un antifascista fuggito a suo tempo dalla Germania, combinava certi scherzi (non lui solo, beninteso), che il poveruomo talvolta, fra pochi intimi, confessava di voler piantare tutto e tornarsene in patria, pur approvando totalmente e incondizionatamente la politica dell’Unione Sovietica.
Più o meno una volta la settimana gli insegnanti entravano nel nostro cortile col viso atteggiato all’espressione di asciutta tristezza dei messaggeri di sventura. E benché a quei tempi una mezza dozzina di ragazzi dell’età di mio fratello frequentasse la stessa scuola, vedendo l’insegnante i vicini di casa e talvolta perfino gli altri abitanti della via si affrettavano a chiamare mia madre con segreta voluttà:
«Cercano di nuovo te!»
Rivedo ancora la mamma, pallida, raddrizzarsi con in mano l’ago del fornello a petrolio con il quale cercava di domare il Primus, questo minuscolo teppistello coabitativo eternamente riottoso. Ecco che getta l’ago vicino al fornello, si pulisce le mani con uno strofinaccio e con aria condannata invita l’insegnante a entrare:
«Si accomodi...»
L’insegnante entrava in casa, mentre i vicini, prima ammutoliti per ascoltare che cosa avrebbe detto, tornavano a occuparsi degli affari loro. Speravano sempre che lei perdesse le staffe e cominciasse a parlare con l’insegnante in cortile. Ma la mamma non perdeva mai le staffe e quel piacere non glielo procurò mai. In compenso nei rari casi in cui si sbagliavano, cioè chiamavano la mamma mentre gli insegnanti stavano solo passando di lì per caso oppure entravano sì nel cortile, ma per andare dai genitori di un altro alunno, la mamma, scagliandosi contro le loro conclusioni affrettate, placava almeno in parte la sua anima assetata di vendetta.
Uno dei miei zii, vale a dire zio Samad, avvocato decaduto, che a un tavolino del caffè del mercato aveva messo su un piccolo studio di consulenze legali per i contadini, in cambio delle quali a mo’ di onorario si faceva pagare immediatamente da bere, di solito verso sera tornava a casa barcollando.
Se tardava, la nonna mi mandava dietro l’angolo, a un paio di isolati da casa nostra. Là passava la strada che veniva dal mercato, e che zio Samad di solito percorreva rincasando. La nonna mi mandava a fare la guardia per evitare che finisse sotto una macchina o per intercettarlo in tempo, se altri ubriaconi avessero cercato di trascinarlo da qualche parte.
Inoltre, e forse era il motivo principale, le sembrava più decoroso, davanti ai vicini, che lo zio non camminasse per la nostra via tutto solo, ma col nipotino, il che probabilmente doveva dissimularne non tanto l’ubriachezza, quanto l’immagine di uomo solo e decaduto.