Aleksandr Blok
Né sogni né realtà

Al tramonto, riunita sotto i tigli, la nostra famiglia prendeva il tè. Oltre i lillà la nebbia già saliva dal burrone.
Si udì un affilar di falci. I contadini del podere vicino erano usciti a falciare il prato del mercante. Non gridavano, non imprecavano come sempre. Le falci strusciavano sull’erba, si sentiva che erano una ventina.
A un tratto uno di loro intonò una canzone. Senza sforzo fluì una potente e limpida voce di tenore e subito riempì il burrone,  e il boschetto, e il giardino. Oltre il lillà, oltre la nebbia non si distingueva nulla, riconoscevo dalla voce che a cantare era Grigorij Chripunov; ma non avrei mai creduto che il piccolo e malaticcio Grigorij, che lavorava in fabbrica, avesse una voce così potente.
I contadini si unirono al canto. E noi tutti ne fummo terribilmente turbati.
Non conoscevo, non distinguevo le parole; ma intanto la canzone continuava a crescere. I contadini dei vicini non avevano mai cantato così. Mi sentivo a disagio, lì seduto, mi pizzicava la gola e avevo voglia di piangere. Balzai in piedi e corsi in un angolo lontano del giardino.
Poi tutto andò in malora. I contadini che avevano cantato quel giorno portarono da Mosca la sifilide e la diffusero per tutti i villaggi. Il mercante di cui avevano falciato il prato finì alcolizzato e, ubriaco, appiccò il fuoco ai fienili del suo stesso podere. Il diacono mise  al mondo una caterva di figli illegittimi. Nell’isba di Fedot il soffitto crollò completamente, e Fedot non lo riparava. Da noi i vecchi cominciarono a morire, e i giovani a invecchiare. Mio zio prese a dire sciocchezze che non aveva mai detto prima. E anch’io il mattino dopo andai ad abbattere il vecchio lillà.
Il lillà era centenario, aristocratico: i grappoli dei fiori erano radi e azzurrini, ma il fusto così robusto che l’accetta lo intaccava appena. Io lo tagliai tutto, e dietro c’era il boschetto di betulle. Tagliai anche il boschetto, e dietro c’era il burrone. Dal burrone ormai non vedo nient’altro che la mia casa, sopra la mia testa: ora se ne sta lì, aperta a tutti i venti e le tempeste. Se ci si scavasse sotto, crollerebbe e mi seppellirebbe.
Tutti sono in preda a un profondo turbamento. Imperturbabile è rimasto solo il ‘politico’, che ha continuato a gironzolare per queste strade in bicicletta, illegalmente. Il poliziotto prendeva sempre la via di sotto, attraverso la palude, e il ‘politico’ pedalava di sopra, sulla strada. Capitava che il poliziotto s’infilasse nei cespugli con il suo calesse leggero, bagnato di vodka come un pulcino; e già dalla discesa piombava giù come un falco il ‘politico’; aveva lappole appiccicate ai pantaloni e impigliate nei pedali della bicicletta. I cani avevano perso del tutto la voce, agitavano le code in una nuvola di polvere.
E così, siamo finiti piuttosto male: «siamo stati trasformati, in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba», come aveva predetto il diacono.
Ma dopotutto il ‘politico’, qualsiasi cosa accada, resterà sempre ‘politico’ e ‘illegale’. È la sua razza. Del resto, ho sempre considerato fondamento della vita il mondo che però, più o meno volontariamente, io stesso ho contribuito a distruggere